Aconcagua '94
So per esperienza che salire in vetta a una grande montagna, sia pure dopo aver corso pericoli e affrontato una fatica immane, un brivido sulla schiena si prova sempre, non tanto per il freddo, ma per la scarica di adrenalina e per la soddisfazione di toccare il cielo, di avercela fatta.
La verità è che da sempre l'uomo è spronato a scoprire i propri limiti, da sempre è stato attratto dalle cime delle montagne, considerandole la naturale dimora degli dei. Sono luoghi privilegiati dove il pensiero di Dio-Creatore nasce spontaneo e viene naturale dialogare con la divinità. Tuttavia, che quattro giovanotti Conselvani, qualcuno non più tale, si mettessero in viaggio dall'Italia per l'Argentina, per andare a toccare il cielo, per salire sull’ultima pietra posta dal Creatore sulla cima della montagna più alta d’America, circa 7000 metri, danno di che pensare.
No, dico: “queste persone avranno tutte le rotelle al posto giusto?” Per il momento pare proprio di sì. Tutte persone normali e, tranne uno, tutti padri di famiglia: un ottico, un operatore sanitario (ora apicoltore), un impresario edile e un operaio metallurgico specializzato. Più normali di così?
L'emozionante avventura che questi coraggiosi Conselvani hanno vissuto ebbe inizio il 30 dicembre 1993, quando, storditi dalle mille raccomandazioni delle mogli e degli amici, i nostri quattro: Paolo, Lorenzo, Piero e Mario, partirono per Roma dall’eroporto di Venezia e a Fiumicino presero il volo per l'Argentina, diretti a Buenos Aires. Avrebbero dovuto essere in cinque a raccontare questa storia invece, uno del gruppo all'ultimo momento un po’ per paura, (lui non vi dirà mai quale sia stato il motivo), un po' per il lavoro e sciorinando mille altre scuse, s'è ritirato, con buona pace di sua moglie.
Dopo il ritorno dalla spedizione in Karakorum-Pakistan del ‘90, il pensiero di salire in vetta alla più alta cima andina era diventato un po’ una ossessione. Per Mario/capo e Piero soprattutto. Ne parlavano fra loro, o tra amici negli incontri conviviali; si prendevano informazioni, si leggevano relazioni, se ne parlava nelle uscite “prative” o a sera nei bivacchi e nei rifugi. Infine considerando l’idea realizzabile e, pensando alla stagione più favorevole, presero “la definitiva decisione (salvo imprevisti)”: Partenza per fine dicembre 1993.
Erano mesi che i cinque amici, (disertore compreso) rodavano le loro gambe. Senza sosta, per tutta l'estate e tutto l'autunno, sono andati su e giù per le Dolomiti, Grappa, Carega, Monte Rosa, Colli Euganei, e marce domenicali estenuanti. Hanno pure bivaccato in piena notte in tendina sul ghiacciaio della Marmolada. Sono saliti sul Monte Rosa, provando e riprovando manovre di sicura. Tutte le occasioni erano buone per la preparazione atletica ed arrivare il più preparati possibile all'appuntamento.
«Il mattino del 31 dicembre», così raccontano, «dopo 17 ore di volo, siamo in vista della costa del Sudamerica e sotto di noi si profila la lunga spiaggia di Mar del Plata, poco oltre come una grande cartina topografica, si apre nei suoi quartieri ben squadrati Buenos Aires, metropoli che conta 3 milioni di abitanti circa, ma che con tutta l’area metropolitana arriva a superare i quindici milioni, un terzo della popolazione Argentina.
Un'ora dopo, espletate le formalità di sbarco, siamo confusi con i turisti, per le strade della capitale Argentina a tenere compagnia agli improvvisati complessi folk che si esibiscono ad ogni angolo di strada. Siamo in piena estate australe e perciò si decide per una capatina a la plaja, a gustarci qualche ora di sole e per un tocco di colore ai nostri lunghi ed estenuanti allenamenti.
Sulla affollata spiaggia argentina siamo spettatori dell'ultimo tramonto dell’anno e, dopo qualche ora, con ancora l'eco dei mortaretti e dei fuochi d'artificio della notte, assistiamo al sorgere del sole del primo giorno del nuovo anno, il 1994.
E’la mattina di capodanno e nonostante la notte insonne, siamo piuttosto allegri. Noleggiamo una capace auto americana e la carichiamo dei nostri bagagli. Poco dopo, tra battute e spiritosaggini, eccoci sfrecciare sulla strada che da Buenos Aires porta a Mendoza. Oltre Milleottocento km di strada attraverso la Pampas: bella, larga, dritta, senza fine e soprattutto deserta. Una di quelle strade che soltanto nel continente americano si possono vedere e percorrere e che portano dritto incontro all’avventura.
A perdita d'occhio immense distese di girasole ed altri coltivi, pascoli, distese di mais e ancora prateria senza fine. Di tanto in tanto qualche mandria di buoi, o di cavalli. Pochi alberi. In lontananza, ecco apparire una macchia verde, sono eucalipti, sotto la loro ombra una casa, un negozio, un distributore di benzina e una provvidenziale officina. Finalmente, dopo sei ore di auto, ci possiamo permettere una vera sosta e un pasto caldo. Un'ora o due di riposo all'ombra dei grandi alberi e poi di nuovo sulla strada, verso le Ande, sotto un cielo da favola.
Ci accompagnano bianche nuvole sfumate di rosa, di rosso e di viola, tutte al pascolo, come un gregge di pecore. Una meraviglia! Ancora un po’ e ci troviamo ad ammirare un magico tramonto. Uno scenario, come dire, da Giudizio Universale. All'orizzonte davanti a noi, si staglia scura la Cordillera. ...Mendoza, la nostra meta per cenare e pernottare, non è lontana.
Anche il clima è cambiato, alle spalle a oltre 2.000 km, abbiamo lasciato l’Oceano Atlantico, davanti invece, una regione piuttosto arida e, a ripararci dall’umidità del Pacifico, le Ande. Davanti a noi una immagine di montagne spoglie, rocce dai riflessi rossastri, di vallate aride. Di tanto in tanto il corso di un fiume, di un torrente, il verde di un’oasi. Si giunge ad una stazione di polizia ed espletata qualche formalità burocratica per il permesso di salita all’Acconcagua, montiamo le tendine per trascorrere la notte.
L’indomani, un po’ assonnati per una notte agitata causa il rumore del vento e per gli scossoni alle tendine, dopo una marcia di qualche ora, siamo a Puente de Inca a sollazzarci in una pozza d’acqua sulfurea a 40 gradi centigradi. E’ da questo ponte naturale, che attraversa il Rio Mendoza, che si diparte il sentiero verso Cerro Acconcagua, la più alta cima d’America, montagna facile, dicono, ma imprevedibile e scorbutica.
Lungo la salita, il bel tempo può accompagnare l’alpinista per giorni, fino alla cima, mt. 6.959. La via normale attraversa tutto il versante a Nord con il Gran Carreo, (un immenso e insidioso ghiaione). La difficoltà maggiore è presentata dall’altitudine, dalla particolare rarefazione dell’aria e l’assenza di umidità. Qui però, senza alcun preavviso, spazzando e distruggendo accampamenti e tende il terribile Viento Blanco potrebbe essere la brutta sorpresa che mette a dura prova il coraggio dello scalatore. La forte escursione termica diurna, dai 40 ai 50 gradi, unita alla quota, è la principale causa della “puna”, il mal di montagna che può rendere uno straccio per giorni anche il fisico più allenato. Ci siamo ben documentati e pensiamo a tutto questo mentre in silenzio, un po’ eccitati, seguiamo il passo lento dei muli, carichi dei nostri bagagli, affittati a Puente dell’Inca. Ci sentiamo forti e camminiamo sicuri sulle orme dei tanti alpinisti che speranzosi già hanno realizzato il loro grande sogno e che ora è il nostro sogno.
Ancora un giorno di marcia, ora l’eccitazione è scemata, siamo più stanchi. Attraversiamo una splendida valle desolata, intrisa di colori e con davanti la la sagoma imponente dell’Acconcagua, la montagna Regina delle Ande che incombe maestosa, quasi a soggiogare la nostra volontà. La valle, denominata dell’Horcones – già il nome ha un significato sinistro – ci appare ora nera, ora grigia, ora rossa. Ormai si cammina da ore e della valle desolata non si vede la fine. E’ il caso di fermarci per un po’ di riposo, per ristorarci e rimetterci in forze. Poi via di nuovo in cammino verso la montagna.
L’incontro di altri coraggiosi di ritorno dal campo base ci rinfranca. Procediamo assorti, dubbiosi e in silenzio. Due giorni ancora ed ecco finalmente Plaza de Mulas, siamo a quota 4.300 m. circa. La grande spianata, situata ai piedi della parete Nord dell’Acconcagua, ci appare come un grande accampamento: 100, 200 tendine colorate, tra le quali si aggirano alpinisti di tutto il mondo. Facce sorridenti, facce serie e tristi, bruciate dal sole; occhi vivi, incavati, in visi smunti, magri e labbra screpolate; nasi rinsecchiti, spellacchiati o soltanto rossi per le scottature. 50, 100 lingue diverse: una Babele ai piedi della grande montagna dai cui sentieri scendono uomini dalla struttura robusta ma dall’aria disfatta e dall’andatura traballante. Dal loro viso traspare la gioia dei fortunati che ce l’hanno fatta, o la rabbia e la smorfia dell’insuccesso di coloro che si sono arresi, forse per il tempo inclemente, forse la puna o forse …solo l’Acconcagua. Tutt’intorno sparsi, massi erratici, muti e freddi testimoni di glorie e tragedie. Da qui, per la via normale, si sale alla cima.
La visione dei volti sorridenti ci infonde coraggio, ma leggendo la delusione in viso di coloro che si sono arresi, indovinando anche la loro sofferenza, ci rattrista e cerchiamo le ragioni della nostra presenza in questo accampamento sperduto, fuori dal mondo. I grandi spazi, i grandi silenzi e la natura che, in questi luoghi, anche se più aspra e cruda, è di una bellezza incomparabile, ci rapisce ed affascina, mentre, la sicurezza e l’esperienza acquisita sulle cime più diverse delle Alpi, dell’Africa e del Pakistan, rafforza in noi la voglia e il desiderio della nuova conquista.
Un giorno, due, per riposare e per l’acclimatazione, con brevi puntate tra i suggestivi penitientes del ghiacciaio dell’Horcones. Un po’ di incertezza per l’improvviso malessere di Paolo che lo induce a rinunciare alla salita e decide di rimanere al campo ad aspettarci.
L’indomani, la voglia di salire ha sgombrato i nostri dubbi ed in tre - (Mario, Lorenzo e Piero) – carichi dei nostri zaini e di tanta fiducia, puntiamo diritti sul sentiero, la via normale che porta alla cima. Attraversiamo enormi ghiaie rossastre, raggiungiamo una sella nevosa, prendiamo per la cresta Nord, arriviamo con gran fatica a Nido de Condores, mt 5.500 circa. Montiamo la tendina per la notte, spossati e con un po’ di mal di testa. Ci arrangiamo per una cena frugale ma sostanziosa, anche se l’appetito non è nel suo stato migliore: dobbiamo riprendere energie. Verso sera, il freddo si fa più pungente e non ci manca una spruzzata di neve, poca per nostra fortuna: comunque, una notte molto agitata. Una notte che i pensieri ci pare di toccarli, come anche le stelle. Una notte che ci auguriamo passi in fretta.
Ci alziamo la mattina intirizziti e con la testa alquanto scombussolata, diamo un’occhiata alla cartina e al nostro piano di marcia. Sarà un tragitto più breve, solo 500 mt. di dislivello, ma di fatto, la quota ed il peso degli zaini lo rendono interminabile.
Arriviamo al Berlin stanchissimi. Prima di sistemare la tendina, ci sediamo a prender fiato. Il posto è un meraviglioso balcone che si affaccia, a 6000 mt circa, sulle cime della Cordillera e sui nevai faticosamente attraversati il giorno prima. Là vicino ci sono i resti di due piccole costruzioni, ora in disuso, sappiamo che un tempo se n’è servito l’esercito per esplorazioni militari e scientifiche. Rimontiamo per la terza volta la preziosa tendina, poi, un po’ di thè, un pezzo di cioccolato, altre barrette energetiche, altro thè. Qualcuno si discosta per un bisognino. Poi, raggomitolati nei nostri caldi piumini, ad ammirare il tramonto. Un po’ di vento. Cominciamo a sentire più freddo e la testa si fa più pesante ma, per fortuna non ci fa male. Uno alla volta ci rifugiamo in tendina e finalmente riusciamo a smaltire un po’ di sonno arretrato.
Quando ci alziamo è ancora buio. Le stelle, in una quantità mai vista, a 6.000 m di quota, ci par quasi di toccarle, tanto sono grosse e vivide. In fondo, all’orizzonte il primo albore, una riga di luce bianca, gialla, annuncia imminente il sorgere del sole.
- “Tosi, oncò semo in sima!”
E’ la voce cavernosa di Mario che ci scuote e ci rinfranca.
Ci prende l’euforia e non vediamo l’ora di rimetterci in cammino. Battiamo i denti per il freddo: il termometro segna meno 17 gradi. Lasciamo montata la tendina, con dentro tutto ciò che ci pare superfluo, la smonteremo al ritorno. Ci facciamo le ultime raccomandazioni, prospettiamo anche la possibilità di arrenderci. Così, con lo zaino fornito dello stretto necessario, cominciamo a salire. Il tempo è favorevole e l’aria, a poco a poco, al sopraggiungere del sole si stempera . Procediamo in fila indiana lungo la traccia di sentiero che attraversa l’immenso e interminabile ghiaione (il gran Carreo), testimone di inenarrabili fatiche, ma eccezionalmente panoramico. Verso le ore 11.00 superiamo quota 6.600 mt. e la salita si fa sempre più faticosa ed impegnativa.»
Siamo a quota 6.700 m. circa, all’imbocco dellaripida canaletta che porta in cresta tra le due cime. Lorenzo si ferma. Ansima, guarda gli amici davanti a lui che in silenzio stanno arrancando. Gli si annebbia la vista, un breve mancamento. Rialza lo sguardo verso Mario e Piero, che lo stanno aspettando. Li raggiunge e dice loro che si ferma... Tosi mi so finìo! Voi andate pure avanti, andate in cima! ...Io scendo ad aspettarvi al Berlin.”
Lorenzo si gira e piano piano comincia a scendere. Mario e Piero, rassicurati dalle parole dell’amico riprendono a salire, ansimando, lentamente, un passo dietro l’altro proseguono in fila indiana, aggrappandosi alle pietre. Ancora 250 metri d’infernale salita, ...un tempo interminabile a inerpicarsi tra sassi e massi instabili fino a raggiungere la cresta somitale (il Filo del guanaco) 6900 m.
Ora l’occhio spazia sulla glaciale parete sud, sono immagini impressionanti, due, tre, quatro, cinque passi e sosta. Respiro affannoso. I polmoni sono mantici tesi al massimo, il cuore scoppia. Ancora cinque passi, un'altra sosta, e la bocca aperta a cercare l’aria. La cima dell’Acconcagua (cumbre norte) è là, a poche decine di metri dove sta la Croce.
Alle 16.00 del 12 gennaio 1994, Mario e Piero sono sulla vetta, a 6959/62 m.! Si stringono alla Croce.
...Si abbracciano, ridono, piangono e con loro, almeno nei pensieri, ci sono tutti: Lorenzo e Paolo, figli, mogli, amici, Conselve e la bandiera italiana. Quasi non ci credono. Legano alla croce il gagliardetto di Conselve. Si guardano intorno. Per qualche istante ammirano, lontane sull’orizzonte, le vette della Cordillera. Qualche foto a immortalare l’impresa. Avrebbero voluto fare una foto anche con l’amico Lorenzo. Peccato! ...perchè, con loro Conselve è sulla cima!
Ancora uno sguardo intorno, una preghiera su quell’altare di pietra che è l’Acconcagua e via giù, in fretta, al Berlin per incontrare Lorenzo.
...La tendina è come l’avevano lasciata, di Lorenzo nessuna traccia. Eppure, s’era d’accordo di aspettarsi al Berlin …Forse non se l’è sentita di sostare e avrà deciso di scendere?
L’interrogativo li tormenterà tutta la notte ed anche i due giorni successivi, quando, avendo guadagnato di gran fretta il campo base, s'era fatto loro incontro Paolo che, guardandoli stupito, chiede loro:
- «E mio fratello?»
Mario e Piero si guardano. Poi muti si girano a fissare la vetta dell'Aconcagua e piangendo cercano di spiegare a Paolo l'inspiegabile. I tre amici capiscono che Lorenzo è ancora lassù. Ma dove?
In preda all’agoscia, nel giro di qualche ora, i tre amici organizzano le ricerche ed i soccorsi. Un brutto presentimento li tortura. Si domandano tra le lacrime se Lorenzo abbia potuto resistere per due notti al freddo intenso di quelle quote.
Per sua fortuna, Lorenzo, dopo essere scivolato e trascinato per qualche centinaio di metri giù nel ghiaione, si riprende, è cosciente. Trascorre la notte all’addiaccio, muovendosi come può per non essere sepolto dal pietrisco e morire assiderato. Vede finalmente sorgere l’alba. Ora sta seduto sul sentiero che, a prezzo di sforzi immani, ha raggiunto durante la notte. Incapace di muoversi, disidratato, verso le nove del mattino viene soccorso da un generoso alpinista cecoslovacco che si priva delle sue preziose bevande e lo trascina giù per qualche centinaio di metri. Lorenzo è veramente malridotto, allo stremo: non sente più le gambe, non è in grado di camminare.
Ma ecco, giù, ancora lontano si scorge sul ghiaione il gruppo dei soccorritori. Finalmente sono arrivati! Rifocillano Lorenzo e si accertano che non abbia ossa rotte. Poco dopo, con le braccia al collo di due nerboruti al suo fianco che lo sorreggono, verrà trascinato per ore, fin giù a Plaza de Mulas da dove, con l’elisoccorso, sarà subito trasportato all’ospedale di Mendoza.
“Potete immaginare il nostro stato d’animo”, ci dicono in seguito Mario, Piero e suo fratello Paolo, prima e dopo il ritrovamento. Dall’angoscia e le lacrime prima, avendolo creduto perso per sempre sulla montagna, a un delirio di gioia dopo, nel vederlo comparire al campo base, anche se male in arnese: Lorenzo era vivo e nonostante tutto stava bene! Lui non ricorda niente dell’accaduto, tranne che, quando rinvenne sul ghiaione, la speranza di uscirne vivo non lo abbandonò mai. Non sa nemmeno lui come sia riuscito, col buio e con il gelo, a trascinarsi con un movimento laterale e sul sedere, e raggiungere il sentiero dove l’alpinista cecoslovacco l’avrebbe trovato il mattino dopo, disidratato e con qualche principio di congelamento.
Il fatto in sé può essere insignificante, ma gli amici che hanno vissuto l’impresa e testimoni della disavventura, dicono che Lorenzo oltre che per buona sorte si è salvato per un intervento del Cielo. Nello zaino che lui stesso aveva recuperato dopo la caduta, - (pare sia rotolato giù per il ghiaione per 300 o 400 metri ) - fu trovato soltanto il piccolo quadretto della Madre di Dio, sì della Madonna che l’amico don Ezio gli aveva affidato, perché lo lasciasse in cima all’Acconcagua, tutto il resto, compresa una preziosa cinepresa, nella quale erano immortalate alcune fasi dell’impresa è rimasto sepolto nel pietrisco. Un vero peccato, ci siamo persi anche il filmato.
Ai quattro amici non è parso vero ritrovarsi sani e salvi e insieme.
Più che per la conquista della cima, si festeggiò per Lorenzo.
…Che festa sarebbe stata senza di lui?
Mario Berto