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Kilimangiaro
di Mario Berto
 
Domenica 8 marzo 1986 - (Festa delle donne)
   

 

Tre giorni di marcia in mezzo alla foresta, savana, deserto, poi qualche salita per rocce nere come l’Africa, e abbiamo raggiunto Lava Tower ( 4.800 mt circa)). Siamo saliti da Est, dal sentiero che si diparte da Machame. …Attraverseremo tutto il vulcano fino alla cima, e scenderemo da Ovest, per la via normale.
Sono le tre del pomeriggio e fa freddo. Montiamo le due tendine per la notte e per riposare quel tanto da riprendere le forze per l’ultimo balzo. Domani saremo sull’Hururu Peak.
Lava Tower, prende il nome dal gigantesco pinnacolo di lava nero che abbiamo appena superato. Il posto è un terrazzo sull’Africa, una finestra aperta dal paradiso per guardare il mondo. Alle spalle il fianco imponente e ripido dell’ultimo tratto della montagna, superato il quale ci troveremo sul ghiacciaio che ricopre il cratere del Kilimangiaro. Dalle rocce scendono qua e là rivoli d’acqua che si staccano da isolati nevai. …I portatori ci hanno appena lasciato per raggiungere, facendo il periplo della montagna, il rifugio Orombo, dove aspetteranno il nostro ritorno.

…Da 4 ore ormai, io, Ernesto e Alberto, ci stiamo inerpicando lungo la salita che porta al cratere principale del Kilimangiaro. Abbiamo trascorso una notte infernale. Il termometro, anche se sulla linea dell’Equatore, ai 4.800 mt di Lava Tower, segna meno 5 gradi. Infreddoliti sistemati dentro le nostre tendine, cerchiamo di riposare. Io ho il materassino bucato, per cui la schiena poggia quasi sul ghiaccio, mi pare di essere in un frigorifero. Non riesco dormire, abbandono il mio rifugio di tela cerata e vado a sedermi su un masso poco lontano, imbottito di maglioni, passamontagna e giaccone a vento. L’aria fredda taglia più che una lama di coltello. Guardo le stelle. Quante! …Grosse! E come brillano! Ho nitida la sensazione di essere tra le braccia del Creatore, ed una preghiera mi è viene spontanea. Come spontaneo è correre col pensiero a casa, da mia moglie, dalle mie figlie… Dopo un po’, con tanta commozione in cuore, torno nella mia tendina, pensando finalmente di chiudere occhio. Mi giro e rigiro tutta la notte, senza trovare la posizione ideale che mi permetta almeno di assopirmi. Non dormo. Batto i denti per il freddo e per un po’ di febbre fino all’ora della sveglia che mi pare non debba mai arrivare.

Alle due del mattino ci alziamo. Ernesto, sul fornellino portatile, ci scalda una tisàna ed entusiasta ci incoraggia: “Tosi, ancora qualche ora e semo in sima!”
Smontiamo le tendine, sorseggiamo un po’ di thè, sistemiamo a li zaini. …Io mi lamento della notte trascorsa e manifesto un po’ di mal di testa, ma i due amici non ci fanno caso, anche perché ognuno ha il suo di malessere cui badare: a quella quota certi disturbi sono cosa normale.
Alle 3.30, lungo un canalone tra massi instabili e ghiaccio iniziamo a salire il fianco del vulcano. Avanti! Su!, Su! La salita comincia a diventare un tormento. Di tanto in tanto perdo l’equilibrio, un po’ per la quota, oppure a causa di qualche sasso smosso. Ci si ferma per prendere fiato e poi su di nuovo lentamente, passo dopo passo “pole –pole, slowly-slowly”. …Intanto alle nostre spalle il chiarore sulla linea dell’orizzonte annuncia l'alba, mentre in cielo ci accompagna nella nostra fatica il tremolio delle stelle. Chissà forse ridono di noi così piccoli, insignificanti e così stupidi da misurarci con la più alta montagna d’Africa.

Non c’è una nuvola, e soffia un vento gelido, tagliente. Di tanto in tanto una sosta, per prendere fiato che a quella quota l’aria nei polmoni pare sempre mancare. In una di queste soste, girandoci verso Est, restiamo a guardare meravigliati l’alba. Un caleidoscopio di colori mai visto. Un incendio sull’orizzonte! Poi il sole. Il sole d'Africa che ora comincia a distinguersi nel diffuso rossore: un sole enorme! Verso le 9.00 raggiungiamo il bordo del ghiacciaio sul cratere, a circa 5.300 metri di quota. Ci mettiamo a sedere per riposare e per ammirare il panorama intorno. L'Africa è ai nostri piedi: immensa, indefinita, eppure meravigliosa.

Da lassù, a guardare il mondo da quella terrazza e pensarlo pieno di problemi, sembra una cosa irreale e che minimamente ci tocchi. Forse non ne facciamo parte. Ci par di vivere dentro un sogno.
Dopo mezz’ora, fissati i ramponi agli scarponi, ci mettiamo di nuovo in marcia. Dobbiamo attraversare tutta la calotta glaciale e portarci all'estremità opposta del cratere, raggiungere punta Gilman a 5.500mt e di là salire fino all'Hururu Peak (cima della libertà), la vetta vera e propria, alta 5.865 metri. Io fatico da morire. La testa pare un tam-tam. Trascino letteralmente le gambe. Ogni tre passi mi fermo per respirare. Ma, anche se mezzo addormentato, penso di avercela fatta. Mai mi balena l’idea di lasciar perdere e fermarmi definitivamente. Se ho raggiunto il cratere, dopo aver superato quel maledetto canalone, di sicuro arriverò in cima. I miei amici di tanto in tanto sono costretti a fare qualche sosta per aspettarmi. Non è che loro siano meno a disagio del sottoscritto. Diciamo che forse nei giorni precedenti hanno dormito un po’ di più. Io invece, non dormo da quattro notti.
Cammino e dormo. Sì cammino e dormo! Se ne accorge il mio amico Ernesto che ogni tanto mi chiama per svegliarmi e per incitarmi ad allungare il passo, ma proprio non ce la faccio a tenere il loro, sono in trance. Ho bisogno di più soste, altrimenti i polmoni mi scoppiano e così li lascio andare avanti. Poi loro si fermano ed io li raggiungo.

Guadagniamo punta Gilman che sono le 11.00. Mi fermo a guardare il panorama intorno. Verso sud, contro l’orizzonte si staglia nitida la cresta frastagliata del Mawenzi mt. 4500. Intanto i miei due amici riprendono a salire. Io per la stanchezza resto a riposare ancora cinque minuti. Poi, vedendoli allontanarsi, mi faccio coraggio. Mi carico lo zaino e, col fiato sempre più corto, con i polmoni sempre in debito di ossigeno, via, ancora a salire! …mi ripeto: “Dai Mario! Ce la fai! Non mollare!” e stringo i denti.
La cima ormai è alla nostra portata. Una sofferenza che non vi dico, ma anche un piacere immenso nel pensare che ormai siamo sulla vetta della più alta montagna d'Africa. Il primo a raggiungere la croce d’Huru Peak è Alberto; poi Ernesto e, dopo circa dieci minuti, arriva il sottoscritto: sono sul tetto d'Africa! Dallo zaino, con le lacrime agli occhi, estraggo subito la bandiera italiana che sempre mi accompagna nelle mie salite. La fisso sul bastoncino periscopico e comincio a sventolarla piangendo. Provatevi voi a frenare le lacrime! Ve l’assicuro, dopo un’impresa simile, vi scoppierebbero gli occhi. Abbraccio i miei fidati amici, pure loro con le lacrime agli occhi. La commozione ci strozza le parole in gola, e tra le lacrime spunta un sorriso di soddisfazione grande quanto tutta l’Africa. Ci congratuliamo a vicenda: “Bravo mi! Bravo lu! Bravo ti!”. Fissiamo per bene alla croce il gagliardetto del Comune ed alcuni adesivi degli Amici della Montagna di Conselve e del CAI di Padova. Sono le 14.00 di Domenica, 08 marzo 1986! Non stiamo nella pelle! Ci fermiamo per circa venti minuti, per le foto di rito su quella cima immacolata. A tenerci compagnia, solo la grande croce d’acciaio, simbolo delle sofferenze di tutta l’Africa. Un vero altare nella cattedrale del mondo. Storditi, stupiti, ammirati da tanta selvaggia e siderale bellezza. Con lo sguardo perso intorno, ora sul ghiacciaio, ora sull’orizzonte, dove terra e cielo si confondono in un tutt’uno indistinto Con occhiali, passamontagna e coprinaso per ripararci dai raggi ultravioletti. Nel blu del cielo si riesce a scorgere qualche stella.

Poi, felici ed entusiasti, quasi increduli per l'impresa, e per quel pezzo di paradiso, torniamo alla realtà: è tempo di scendere dal cielo! Ci incamminiamo sulla neve lungo la cresta del cratere. Riguadagniamo a fatica punta Gilman, perchè nel frattempo, col calore del sole la neve s'è fatta molle. Sprofondiamo fin quasi alla cintola. Raggiungiamo il Passo del Leopardo verso le 16.00. Ancora una sosta da quel terrazzo per ammirare poco lontane le creste del Mawenzi. Quindi ci buttiamo giù per il ghiaione e nel giro di un'ora e mezza, due, siamo al rifugio Kibo a quota 4.500. Decidiamo di non fermarci e di proseguire verso il rifugio Orombo. Attraversiamo il deserto dello Shira (una ventina di Km), a 4000 mt. di quota che è già notte e, per timore di qualche brutto incontro, qualche leopardo, qualche altro animale – ma sono soltanto fantasie – teniamo a portata di mano la piccozza. Senza dire una parola, stringendo i denti, si va avanti come dei robot. Dopo 20 ore di fatica non siamo più degli alpinisti, ma soltanto uomini stanchi, che hanno bisogno di riposare e di dormire. Ma si deve andare avanti e basta! Raggiungere il rifugio! Finalmente a notte fonda, verso le 21.00, ecco davanti a noi qualche torcia elettrica e spettri che si muovono nel buio: i nostri portatori. Guardiamo meglio, davanti a noi stanno le sagome dei piccoli chalet che costituiscono il complesso del rifugio Orombo. Per nostra fortuna troviamo posto e possiamo distenderci su una branda che, per quanto sporca, - come poi costateremo al mattino, - ci pare il più soffice dei letti.
....Il resto della discesa fino a Moshi, ve lo lascio immaginare.

Lungo il tragitto abbiamo incrociato, che salivano cantando, colonne lunghissime di portatori con al seguito decine e decine di turisti, diretti al rifugio Orombo. Alcuni di loro, i più coraggiosi si spingeranno fino al rifugio Kibo, ma (statistiche alla mano), soltanto uno su venti tenterà di salire in cima al Kilimangiaro.
Questo è stato il più bello 8 marzo della mia vita. Una domenica indimenticabile!
Quando poi, abbiamo proiettato il filmato nella sala del Cinema Marconi di Conselve, ad un amico sacerdote che scherzando ci aveva detto:
“Bravi, così voi avete saltata la Messa!” Io ho risposto:
“Noi eravamo dentro la cattedrale del mondo, dove pregare ci veniva spontaneo. Ci sentivamo abbracciati dalla presenza divina ed una preghiera l’abbiamo anche detta.
Penso che ‘Lui’ ci abbia capito e perdonato.”

Mario Berto

 

   
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